Biografia di Silvana Weiller Romanin Jacur
Silvana Weiller Romanin Jacur nasce a Venezia il 29 maggio 1922 da Augusto Weiller (1887-1974) e Maria Coen (1897-1999). A pochi anni dalla nascita di Silvana, la famiglia Weiller si trasferisce a Milano, dove nel 1925 nasce il secondogenito, Guido (1925-2008).
Educata privatamente durante gli anni dell'istruzione elementare e secondaria, frequenta a Milano il Liceo Classico Parini fino all'autunno del 1938 ma è costretta, a causa dei provvedimenti razziali, a proseguire e terminare gli studi presso la "Scuola ebraica di via Eupili". Dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943, la famiglia abbandona Milano per rifugiarsi temporaneamente a Binasco, e di lì in Val d'Ossola. Grazie all’aiuto dei partigiani del capitano Filippo Beltrami, i Weiller raggiungono un campo di raccolta svizzero dove, fortunatamente, trascorrono un tempo relativamente breve. Il padre Augusto ottiene infatti un incarico per insegnare Diritto a Losanna agli studenti fuoriusciti e moglie e figli vengono liberati su garanzia di un amico. Raggiunta la capitale del Canton Vaud, Silvana si iscrive ad un Corso Libero di Nudo, conseguendo, in un secondo momento, il Diploma presso l'E'cole Cantonal d'Art e dove sposerà Leo Romanin Jacur nella sinagoga del quartiere di Georgette. Nel 1945, a guerra finita, la famiglia Weiller rientra in Italia e Silvana si trasferisce a Padova dove i Romanin Jacur occupano un posto importante nelle vicende economiche e politiche della cittadinanza.
Nel 1946 nasce Giorgio, cui seguono, nel corso di pochi anni, Davide (1949) e Lia (1950). Silvana si dedica all'educazione e all'intrattenimento dei bambini, organizza giochi e feste a tema e realizza cartoni e rotoli coloratissimi illustrati con le storie della Bibbia, recuperando quella passione per il disegno che l'aveva vista operosa fin dai tempi degli studi artistici a Losanna. Del resto, il desiderio di dipingere l’accompagna fin dai tempi della primissima infanzia veneziana, quando, insieme alla zia Lia (1899-1996), si reca in visita alla pittrice Alis Levi (1884-1982), nella sua casa a Corte del Duca Sforza. Punto d'incontro per numerosi musicisti, pittori e letterati del tempo, tra cui Maurice Ravel, Igor Stravinskij, Guido Cadorin, Filippo de Pisis, Eleonora Duse e Gabriele D'Annunzio, la Weiller trascorreva in quel luogo stagioni intere, e pur essendo all'epoca ancora una bambina, ricorda quei momenti come occasioni preziose che le trasmisero una misura inconsueta di libertà mentale e d'innocenza insieme. Tant'è che, ancora oggi, reputa la pittrice inglese come l'unica persona cui deve gratitudine per qualche insegnamento, poiché le insegnò a "guardare", e come guardare è importante per poter "vedere”.
Sollecitata all'esercizio pittorico da una solida tradizione familiare (suo trisavolo era Giuseppe Beniamino Coen (1795-1856) stimato pittore vedutista ferrarese), Silvana Weiller riesce a dedicarsi alla pittura fin dai primi anni padovani, peraltro rivolti all'educazione dei figli e alla cura della famiglia: “Avevo poco tempo – ricorda la Weiller di quegli anni – ma ne trovai sempre ed imparai a stimolare il pensiero con la percezione delle diverse tensioni.” Risale al 1948 il primo evento con cui esordisce all'interno dell'ambiente artistico cittadino, quando presso le sale del Caffè Pedrocchi si allestisce, a partire dal 21 giugno, la cosiddetta Mostra del Quarantotto. Espone per la prima volta una serie di bozzetti di scena e prende parte al comitato ordinatore della rassegna, allora presieduto dal poeta Diego Valeri, con cui l'artista avrebbe instaurato un'amicizia profonda.
Tre anni più tardi, nel 1951, è presente alla riapertura della Biennale d'Arte Triveneta (BAT) e d'ora in avanti, le partecipazioni dell'artista alle rassegne cittadine si susseguono pressoché ininterrotte in un percorso che la vede evolversi, nel decenni, da un figurativo sintetico, pur carico di spinte cromatiche ed espressive, ad una ricerca costitutiva della materia, in un gioco di equilibri e tensioni che rinvia alla sfera emotiva dell'artista. Successivamente alla personale del 6 aprile 1957 presso la galleria La Chiocciola di Sandra Leoni (dove esporrà anche negli anni 1967-1970-1973-1979 e 1983), la Weiller espone nel 1961 alla galleria Il Sigillo, all'epoca annessa all'Università popolare. Dieci anni più tardi è presente alla Images '70 di Gaetano Mastrogiacomo e alla galleria La Cupola, mentre nel 2003 viene organizzata una personale negli spazi della Galleria Fioretto. Risale invece al 15 gennaio 2011 l’antologica “Dipinti e parole” dedicatale dal Comune di Padova presso la Sala della Gran Guardia.
A partire dagli anni sessanta l'artista affianca all'attività pittorica un intenso esercizio critico, che la vede impegnata in collaborazioni con riviste specializzate del settore, tra cui "Arte Triveneta" ed "Eco d'Arte Moderna" e con le principali gallerie d'arte contemporanea della città. Parallelamente, per quasi un ventennio, la Weiller si occupa di "Cronache d'Arte" sul Gazzettino di Padova, pubblica consuntivi relativi all'attività delle diverse sedi espositive e recensisce mostre ed artisti presenti in città.
Numerosi, nel corso di quei decenni, furono pure gli interventi rivolti all'ambito letterario, che la videro presente all'interno della rivista "Il Sestante Letterario" nella recensione di libri e di giovani autori italiani e stranieri. Risale invece al decennio successivo una ricca attività poetica e di traduzione, che porta la Weiller ad instaurare un rapporto di amicizia e collaborazione con il poeta ed editore rodigino Angelo Bellettato (1941-2004). Per le Edizioni dei Dioscuri, di cui Bellettato fu il fondatore, la Weiller pubblica traduzioni di poeti stranieri e una ricchissima raccolta di poesie personali.
Socia di FIDAPA e Soroptimist, organizzazioni internazionali che promuovono ed incoraggiano la posizione femminile nel contesto familiare e lavorativo, Silvana Weiller partecipa a numerosi dibattiti e conferenze, approfondendo studi sulla figura della donna anche all'interno del contesto biblico. Per l'Associazione culturale ISRAEL tiene invece conferenze incentrate sulla figura di Mosé, sulla storia dell' Ebraismo e sul significato della Genesi.
Nel 1994 le viene consegnato Il sigillo della città di Padova per l'instancabile impegno in ambito artistico e letterario, mentre nel 2006 l'Associazione culturale Moderata Fonte la promuove a socia onoraria.
Silvana Weiller vive a Padova, dove continua la sua attività di pittrice e scrittrice.
Un’arte alle soglie del sogno.
Figura di spicco del panorama artistico e culturale della Padova degli anni cinquanta e sessanta, Silvana Weiller si trasferì a Padova nell’immediato dopoguerra dove si inserì molto presto, con eleganza e competenza, nella realtà cittadina. Artista ed intellettuale di rilievo, seppe negli anni farsi apprezzare per la sensibilità e l’intelligenza, vivaci e poliedriche, che caratterizzavano ogni sua produzione o intervento critico. Donna colta e raffinata, ancor oggi ama dire, ricordando i primi anni della sua attività, “Ero impegnata a fare la moglie e la madre. E poi dipingevo.” Ma questo suo atteggiamento riservato e schivo non deve in alcun modo trarre in inganno. Nella Padova di quel periodo le donne che si cimentavano in campo artistico erano rappresentate da un’entità relativamente ristretta e Silvana Weiller, con una partecipazione discreta ma costante e attenta, è forse stata l’unica a incarnare una figura di intellettuale in tutta la sua completezza. Coscienziosa interprete del suo tempo, ne ha tradotto ogni aspetto svelandone autenticità o innovazione con mente brillante ed eclettica.
Con un percorso di ricerca e sperimentazioni del tutto autonomi, è stata in grado di sviluppare la sua personale produzione artistica e letteraria e allo stesso tempo, coscienziosamente informata su ogni altrui procedere, a lavorare come critico per riviste e gallerie della città.
La famiglia d’origine, colta e di grandi tradizioni, rappresentò da sempre la molla principale per i suoi interessi culturali e per lo sviluppo del suo fare artistico.
Importante per lo sviluppo artistico di Silvana fu la pittrice Alis Levi, moglie di Giorgio Levi, con la quale ella ebbe numerosi contatti sin dalla prima infanzia. “Fu l’unica che mi diede delle indicazioni sul piano artistico. Grazie a lei imparai a guardare, analizzare e riprodurre. Mi insegnò ad prendere in mano gli oggetti e a “vederli” nel loro contenuto formale. Un insegnamento che mi ha aiutata e che ho tenuto sempre presente”.
Negli anni milanesi, ancora una ragazzina, si aggirava per i giardini pubblici o lo zoo armata di carboncini e blocchi notes, intenta a ritrarre la realtà che la circondava. Si abituò ad esplorare il mondo esterno con occhio attento e curioso e già i primi schizzi degli anni quaranta rivelano un’indiscussa sicurezza nel tratto che, delineando sinteticamente la linea di contorno, definisce e costruisce e al tempo stesso diviene di per sé espressivo. Il segno, essenziale, dinamico, cattura l’attenzione con il suo movimento rapido e fremente e trasmette tutto l’incanto e lo stupore di chi sa guardare, con interesse e divertimento, a volte con sottile ironia, ciò che lo circonda. I suoi insegnanti furono la sua casa, la sua strada, la sua città.
“Abitavo... in tutta la città abitavo – scriverà l’autrice più tardi in un racconto inedito – Come si può fissare un punto isolato, quando tutto appartiene, non al cuore o alla mente, ma al corpo stesso e si respira e si pulsa nel sangue torbido di una città?”
Attenzione e lucidità nell’indagare, brevità e incisività del segno, saranno le caratteristiche fondamentali che la accompagneranno nel lavoro, sia di critica che di pittrice.
Stabilitasi a Padova, cominciò a dedicarsi con entusiasmo e con continuità all’attività artistica sviscerando un processo di maturazione che la vedrà, dalle prime prove di matrice figurativa, appropriarsi di un lessico via via sempre più smaterializzato dove il segno, ormai svaporato, diviene luce e colore, in un connubio vivo e pulsante di energia. Il suo percorso evolutivo e il dilagare dei suoi interessi rappresentano il vertice di una cultura composita che caratterizza un radicato internazionalismo e un profondo desiderio di aggiornamento. Alla base ci fu un insaziabile desiderio di sapere, informarsi, guardare, intorno ed oltre. E di dire: traducendo e rielaborando in un vocabolario dalla matrice di sorprendente originalità.
La curiosità che caratterizzò gli anni giovanili non sarà mai paga, non verrà mai meno neppure con il trascorrere del tempo. Anzi sarà proprio questo desiderio di sapere che la sosterrà nella produzione artistica e in tutte le altre innumerevoli attività che la vedranno coinvolta, fattivamente ed emozionalmente.
L’affastellarsi di impegni e doveri non si rivelerà limite bensì stimolo per un sempre coscienzioso approfondimento di studi, sul passato e su tematiche tra le più recenti, e del suo percorso, artistico e critico. La sua nacque pittura sbocciata dal dipanare matasse di sfumature sottilmente barocche e veneziane, da stesure dense di luce dolcissima, da impasti di morbide tonalità sognanti. Ma sotto questa magica fiaba di colore si celava un’inquietudine atavica, una segreta ed inconfessata nostalgia che trasformava le sue opere in fotogrammi dell’inconscio, in groviglio di desideri e simboli, in schegge di un’interiorità, in rispecchiamenti dell’anima.
Attraverso un continuo lavoro di affinamento e approfondimento tecnico e psicologico, l’essenza del suo messaggio risulterà più tardi racchiuso in forme geometrizzanti tali da esaltarne la liricità del contenuto materico e l’eleganza di cristalline iridescenze Procedendo negli studi avviati fin dagli anni Settanta, basati sul bianco e sul nero e sulla scelta del quadrato, quale campo d’azione, Silvana Weiller ha pian piano decantato le sue tematiche in una ricerca di originali cromatismi, analizzata in sottili sfumature espressive.
Attraverso l’uso monocromatico, ora del bianco ora del nero, liberandosi dalle pastoie del colore avvertito come limitazione creativa, è approdata, pian piano, ad un lessico di luminosità, vuoi potenziale vuoi intrinseca, la cui purezza assume valenze di elevato riflesso psicologico ed il cui disegno esalta una sofisticata linearità. È una ricerca di sintesi raggiunta attraverso una semplificazione estenuata, scevra dal vincolo formale e cromatico e nello stesso tempo ben conscia del valore di entrambi.
Le sue opere svelano ritmi intensi ed emozionati, distribuiscono sulla tela forza e vibrazioni sottili che rimandano a sentimenti e sensazioni mai sopite né dimenticate.
La gestualità, dinamica, essenziale e fremente dei primi lavori, si tramuterà, con il maturare del suo percorso, in energia distribuita con vigore sulla tela attraverso la materia. Materia ora plasmata, ora aggrumata, ora tolta, ora aggiunta ma sempre domata e forgiata, quasi magma primordiale, e ricondotta con mano ferma alla sua essenza primigenia tramite un’ operazione, ricca di connotazioni scultoree, volta alla ricerca di una luminosità intrinseca tutta da animare e svelare.
Dopo la matericità degli anni Ottanta, un’altra sperimentazione la vede cimentarsi in percorsi di trasparenze attraverso timbri squillanti di rosso, e nero, o ancora più avanti con gamme differenti del viola e del carminio. È un giocare nuovo con il colore, un manovrare l’operazione pittorica con un fare sapiente e consapevole per scandagliare nuovi, inediti spazi.
In anni più recenti, il ritorno alla calma lucentezza del bianco totale evidenzierà un desiderio di purezza e linearità espressiva dove la matericità, seppur ancora presente, viene dissolta in un ritorno dialogico al passato con filigrane di spessore onirico.