Creatività trasfigurata.
Le prime prove artistiche negli anni dell’immediato dopoguerra, manifestano il desiderio di raccontare la vita intorno, la necessità fattasi impellente, di fissare in immagini una realtà umana, ricca di suggestioni, che la seduce e la cattura. Un mondo a mezza strada tra il reale, il vagheggiato e il fantastico, tratteggiato con pennellate veloci e frementi. L’uso della tempera la sostiene a creare macchie di colore squillante, a volte ocra e verde, spesso con vividi sprazzi di rosso e punteggiature di bianco luminescente.
Venezia traspare nelle tenuità delle tinte, nel suo arpeggiare azzurro e nel suo rosa armonioso, nell’uso tonale del colore, nella dimensione dolcemente onirica che tutto pervade.
In quegli anni utilizzò la sua arte per raccontare storie fantastiche, principalmente ai suoi figli. Erano disegni nati per divertire raccontando: lunghi rotoli di carta in cui si rincorrevano svolazzanti figure di barbuti patriarchi ebrei, regine di Saba o Ester dai grandi, languidi occhi, animali e piante esotiche, ritratti con ironia e vivacità. Sono le illustrazioni per il Baal Shem di Buber, le Storie di Odessa, le Storie della regina di Saba tratte dal Talmud o il Re David di Shlomo Skulski. Silvana Weiller si lascia andare gioiosa e la sua mano vola a ritrarre le “inezie” dell’esistenza o di storie ebraiche che altro non sono che brandelli della sua stessa vita e quella dei suoi cari.
Lo stile dei suoi disegni ricorda il tratto di Egon Schiele, senza però averne la sofferta drammaticità ma perseguendo la sua stessa battaglia per penetrare l’essenza delle cose, non solo attraverso ritratti o composizioni di figure ma anche alberi e paesaggi. L’espressività nervosa del tratto e la prepotente caratterizzazione sono le medesime ma in lei vengono stemperate in un legame d’amore che unisce tutti i personaggi. E allora ecco che ci sovviene della lezione di Chagall; gli stessi brividi di prodigio che attraversano un mondo interiore. Il mondo dell’ebraismo mitteleuropeo.
Sono gli spaccati di “cara” quotidianità di Chagall, la stessa rievocazione di immagini care e familiari orchestrate in una interiorità ricca di sentimento e di magia.
Ma il gusto narrativo e descrittivo è anche vicino al racconto di August Macke per la foga dialogica dei personaggi o per il cromatismo squillante. Il segno descrive con accenti ironici e divertiti gli oggetti, mentre la luce, calda e vivida, stende un velo di sogno dorato. Il tratto, già deciso e sicuro, si è ora visibilmente rafforzato e pian piano, lascia strada ai primi aneliti di un volere di geometrizzazione, di una specifica schematizzazione formale anche se l’impianto figurativo resta solidamente costruito. Se in prima analisi possono venire alla mente opere di altri padovani a lei coevi, Pendini, Strazzabosco, Fasan, l’atmosfera è tradotta con autentica, personale, originalità.
E gli alberi, quelli sono ancora i soggetti preferiti. Ora simili a lamenti e con foglie tanto vive da parer coscienti, ora assetati di luce, ora pacifici, ora congestionati dalla tristezza, ma sempre eleganti e dignitosi, si stagliano luminosi e potenti su cieli vibranti. Alberi che appariranno anche anni dopo, nel 1978, in una serie di punte secche, tecnica con la quale l’artista si cimenterà solo sporadicamente, tentata da nuove espressività.
Dal 1951 la produzione tende ad una schematizzazione più sentita: le forme, mosse da un ritmo espressivo, assumono un movimento armonico, ondeggiante e l’opera intera, pervasa da spunti impressionistici, acquista magici timbri onirici ed evocativi. Il segno incide forme mosse e sinuose ma indaga su spazialità differenti, più geometriche e il colore si fa più marcato e deciso. Lo sfondo si smaterializza in pennellate di colore più acido, sfumato in evanescenti giochi di luce e ombre e appaiono pennellate rosso vivo a definire un carattere maggiormente antinaturalistico che richiama il linguaggio di Mondrian ma tradotto con una sensibilità del tutto autentica, più morbida e riflessiva.
Nella ritrattistica, tema da sempre caro all’autrice, il segno sintetico ed ironico che sottende ad un gioco divertito, passa a sottolineare un’analisi psicologica più acuta e sostanziale. Sono ritratti di persone amate, solidamente costruiti con un’energica linea disegnativa e con stacchi tonali di colore: ognuno racchiuso in un’infinita dolcissima tenerezza.
È lo stile di Modigliani: il suo superare una iconografia, facile e tradizionale, per tralasciare l’aspetto esteriore e addentrarsi direttamente nell’anima che nell’autrice diviene dialogo ricerca affettuosa di un intimo colloquiare.
I lunghi anni di lavori e sperimentazioni sia sul piano cromatico che figurativo evolveranno il gesto pittorico in una maggiore contemplazione dell’ interiorità, in un più elevato rispecchiamento dell’anima, in un maggiormente sostanziale desiderio di andare oltre il tempo.
Il colore dilaga, sempre allagando di trasparenza e riflessi cielo e terra, gettando un velo sfumato e smaterializzato e il pensiero, ancora una volta, corre a Chagall sia per l’autonomizzazione del colore, sia per la distribuzione della composizione sulla superficie pittorica e assumendosi contemporaneamente il compito di dare una precisa sostanza formale e di significare attraverso l’impasto cromatico, la tematica psicologico-emotiva da cui il dipinto trova origine.
Il suo percorso denso di elaborazioni costruttive la porterà ad uno stacco dal reale maggiormente incalzante, caricandolo di quel valore materico che diverrà cifra significativa negli anni più avanti.
Dense spatolate di colore rutilante sveleranno un fervore creativo e vibrante che movimenta la superficie cromatica dove l’immaginario comincia a librarsi in volo anelando a scelte più libere e significanti.