La parola essenziale
S.Weiller cominciò a scrivere ed illustrare libri sin dagli anni cinquanta ma sarà agli inizi degli ottanta che comincerà una vera, costante e copiosa produzione poetica che si manterrà tale sino ad oggi.
Le sue poesie si fissano sulla pagina e nella memoria come un lungo filo che le dipana sino all’ultimo rigo, srotolando pensieri e sentimenti che sono un misto di sensazioni, di ricordi, di riflessioni. E questo fiume di immagini porta dentro di sé la precisa coscienza del peso della parola, parola alla quale ella si affida, fiduciosa, per essere portata altrove, ovunque, in un viaggio che si tramuti in sogno senza dolore né inganno. Affiorano allora parole dolenti e scabre, frementi e concise, in una perenne ricerca di serenità, di pace. E la poesia, con pennellate brevi e concitate, diviene candida, melodica brezza trasformandosi in quadro dell’anima, discreto e appena mormorato. Il dettato lineare, la prosa breve e sincopata (talora in caduta oppure sospesa, raramente martellante), i versi (segni pittorici di un differente ma analogo dettato) sembrano ripiegarsi muti e malinconici nella ricerca spasmodica di uno spazio interiore dove sia possibile ritrovare una luce di malinconia soffusa ed amica.
La variegata misura delle rime costituisce il delicato supporto musicale di una discorsività sciolta, mentre l’ordito della metrica è caratterizzato da ricorsi irregolari di un flusso sinuoso e la sintassi scorre, si arresta, riprende. Il lessico, colto ed insieme elementare, oscilla perennemente tra figuralità naturale e allusività transnaturale.
Sono poesie che esprimono movimento, ricerca verso la consapevolezza della provvisorietà, del mistero, dei timori che gravano sulla condizione dell’uomo. Parlano del tempo e del suo fluire inesorabile, del senso misterioso del nulla e della provvisorietà che si consolida in immagini di vuoto, di silenzio che nello stile essenziale e scabro, privo di concessioni alla retorica, trovano il mezzo più consono per il raggiungimento di una forma pura.
Mario Richter in All’alba nasce la parola scrive:
“È una poesia che si colloca al polo opposto dell’aneddoto e della descrizione realistica o impressionistica. Nulla in essa è concesso ai facili effetti del folklore, del colore reale. Gli aspetti familiari della realtà che ci annoia diventano soltanto gli elementi di un’altra realtà che ci sorprende e ci rinnova... E le parole, diradandosi, si fanno dense, dure mentre la poesia ci porta a riconoscere con molte emozioni nuove lo sgomento di una disperata speranza, le profondità dell’universo e della storia, gli eterni perché del vivere. Sono visioni che instaurano un singolare incontro dello spazio e del tempo, di questo tempo che ci consuma e ci prostra col suo “curvo mistero”. Così l’universo che si vede diventa anche l’universo che si sente dentro, che ci preme dentro, che si trasforma col tempo che ci costituisce”.
E G. Segato aggiunge:
“La sua parola è sempre levigata nella forma, nel suono, nel senso. La visione tende a coincidere con l’ascolto: una visione interiore che è suono, ritmo, memoria, canto, e insieme alone, eco multipla del suono articolato”.
Il 9 giugno 1991 Elio Filippo Accrocca in una lettera ad Angelo Bellettato scriveva:
“Si tratta di una poesia al di qua del “confine”, entro la linea che appartiene al tempo (ricco di silenzio e di parole) e che trae significato dalla distanza, dalla presenza di ombre e porte, tasselli di un mosaico che non è solo lirico ma esistenziale. E dentro nascono promesse e giorni di domande remote, ancora vive. Come la parola, appunto, che si amplia nelle profonde ragioni dell’esistenza, del vissuto quotidiano. [...] Parola e poesia di accordi e disaccordi, venature e agglomerati, intoppi e rilanci, come la vita pretende da tutti noi, poeti e no, privilegiati e comuni fruitori di passi, lungo strade nascoste e in quelle popolari dall’umanità che ci attornia e sostiene il nostro fiato”.
S. Weiller, con le parole e il colore, sembra infine conquistare una dimensione di spazio omogeneo e continuo, dove ogni campitura allude ad una vastità intesa in chiave interiore, dove rigore di forme e di lessico si compenetrano magistralmente in emozioni che esprimono l’indicibile, il trascendente, il divino.